Chi potrebbe lamentarsi per un invito a sognare viaggi in paradisi terrestri? Escludendo i maniaci della passeggiata nel parco e qualche misantropo cronico, nessuno protesterebbe per avere l’occasione di pensare alle vacanze.
Eppure, la realtà, spesso, ci racconta storie che smentiscono quello che può sembrare ovvio.
Un’agenzia di viaggi nei pressi di un ufficio decide di agevolare la diffusione dei tour che organizza per i suoi clienti abituali e di comunicare loro, nella prima mattinata, le novità sulle offerte tramite email. I turisti potenziali colgono con favore questa iniziativa e forniscono spontaneamente all’agenzia i loro indirizzi email. La mailing list entra in funzione e si arricchisce continuamente di nuovi clienti, desiderosi di sognare mete vicine e lontane.
Tutti soddisfatti, quindi, finché, un giorno, i turisti virtuali si ritrovano nella posta elettronica la locandina di mete proposte da un’altra agenzia di viaggi. Qualcuno si lamenta: lottiamo continuamente per evitare le mail indesiderate. Cosa è successo?
Apparentemente nulla di grave. L’agenzia che ha avviato l’iniziativa spediva le proprie proposte tramite email ai clienti senza nascondere i loro indirizzi: ognuno poteva liberamente conoscere gli indirizzi di tutti gli altri. Qualcuno, tra i turisti sognanti, ha raccolto, dunque, gli indirizzi email e li ha “ceduti” alla seconda agenzia in cerca di affari.
L’episodio, apparentemente banale, rappresenta un caso di trattamento illecito di dati personali.
La prima agenzia, infatti, ha acquisito gli indirizzi email (che sono un dato personale) senza la dovuta informativa circa i destinatari (tutti gli altri clienti) cui poteva trasmetterli e ai quali li ha, effettivamente, trasmessi.
La seconda agenzia ha acquisito illecitamente gli indirizzi email e li ha trattati (mandando il proprio carnet di proposte) senza alcun presupposto di liceità (per esempio, acquisendo il preventivo consenso dei potenziali clienti).
Il fastidio dei clienti poteva essere evitato se la prima agenzia avesse avuto l’accortezza di inserire in “conoscenza nascosta” gli indirizzi dei destinatari piuttosto che trasmetterli “in chiaro”: nessuno avrebbe potuto raccogliere questi dati e, successivamente, usarli in difformità rispetto alla norma.